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Come migliorare il finale di un romanzo o di un racconto?
L’explicit, il tema, la ddp e il simbolismo
Analizzando un racconto di una studentessa del laboratorio di scrittura creativa a Barcellona, mi sono reso conto che il punto debole era nel finale.
In particolare, ne risultava un finale scontato, prevedibile.
I problemi che il finale di un romanzo o di un racconto presentano, possono risultare veramente insidiosi, e le cause essere ricercate non solo nella parte conclusiva dell’opera narrativa, ma in tutto il testo che la precede.
I problemi, e le relative soluzioni, possono riguardare:
- Il fatto che non sia chiaro il tema dell’opera narrativa (in altre parole, di cosa parla davvero la storia.
- Non avere chiara quale sia la domanda drammaturgica principale
- La debolezza nel conflitto
- La debolezza nel climax
Difatti molte volte, la soluzione non si trova modificando il finale, ma andando a lavorare su uno di questi aspetti che ho menzionato.
Facciamo un esempio concreto:
Cosa c’è che non va in questo finale? Diciamo che è scontato. Ma perché è scontato, e dove potremmo lavorare per migliorare il testo?
Trovare un finale migliore è uno degli elementi che si considera quando si effettua l’editing di un racconto o di un romanzo.
Qui potete trovare altri Esempi pratici di editing
Analizzando maggiormente l’opera mi sono reso conto che, se nella forma il testo della studentessa aveva l’aspetto narrativo, nella sostanza assomigliava più a un articolo di cronaca travestito da racconto, in quanto, una volta letta la storia, al lettore non rimaneva molto, se non l’avere appreso delle informazioni. In più, non era chiara la domanda drammaturgica principale e il conflitto principale era stato risolto quasi fin da subito.
La differenza tra la letteratura e il giornalismo non è solo questione di forma o di stile, ma soprattutto, di sostanza. Mentre la prima deve auspicare a riverberare un messaggio universale (dove per messaggio non intendo la morale – che non andrebbe mai perseguita in letteratura o in narrativa, in quanto l’autore deve instillare dubbi e domande in chi legge, e non imporre una dottrina o filosofia di vita), la seconda – la cronaca o il giornalismo – serve per soddisfare la curiosità del lettore, a raccontare fatti che sono fini a se stessi.
È proprio questo il punto. I fatti, gli eventi narrati in un romanzo, in un racconto o in una novella, non sono mai fini a se stessi, potremmo dire quasi che sono pretestuosi nell’indicare qualcos’altro, per andare in profondità, scovare collegamenti nascosti ai più (quello dovrebbe essere il compito di uno scrittore), farsi illuminare da quelli che Joyce chiama epifanie.
Insomma, quasi che gli eventi narrati nascondano una natura simbolica.
A proposito di simbolismo, Campbell, relativamente ad alcuni miti, scrive: “[…]
ci interessano i problemi del simbolismo e non la verità storica. A noi non interessa in modo particolare sapere se Rip Van Winkle, Kamar al-Zaman o Gesù Cristo sono realmente esistiti. Quelle che ci interessano sono solo le loro storie”.
Allo stesso modo, quindi, quando intessiamo una storia che si desidera non venga scordata il giorno dopo, dobbiamo partire dai fatti e affidare loro una dimensione simbolica, universale.
Sempre più avanti, Campbell dice che “i simboli sono solo dei veicoli di comunicazione, non devono essere scambiati per rappresentazioni fini a se stesse”.
Per dare maggior forza al nostro racconto, non dobbiamo per forza inventare mondi fantastici, o trame incredibili. Ma la selezione dei dettagli e degli eventi narrativi deve essere accurata, avere un senso profondo.
Possiamo attribuire un significato denso e universale anche a un semplice disegno di una cattedrale (come fa Carver).
D’altronde, come dice Calvino in merito all’incipit, la scrittura è una questione di scelte e di coraggio: coraggio di abbandonare tutte le strade che decidiamo di non percorrere.