Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

Umberto Eco

Le figure retoriche

da | Apr 22, 2020 | Guide scrittura creativa | 0 commenti

Nonostante il nome non entusiasmante – tropile figure retoriche possono essere uno strumento divertente da utilizzare, in cui
emerge proprio il cuore della scrittura creativa. Ogni volta che le usate (e lo fate quotidianamente) effettuate uno spostamento rispetto al senso originario della parola.

Sia che stiate scrivendo un romanzo, un racconto, un tema scolastico, le figure retoriche vi permetteranno di pensare e comunicare in modo originale (paradossalmente, non retorico).

La prossima volta che sentite una strofa di Bersani “Le mie parole son tagliole, palle di neve al sole” o che dite a qualcuno “sei proprio un macigno” spero vi venga in mente questo articolo dove illustro le principali figure retoriche, con tanto di esempi.

Cosa sono le figure retoriche

Possiamo definire le figure retoriche come espedienti linguistici, strategie ricercate o forme espressive letterarie che, deviando in un certo qual modo dal linguaggio comune, arricchiscono il testo scritto dando maggiore efficacia, incisività ed espressività al messaggio che vogliamo trasmettere.

In pratica con le figure retoriche le parole vengono usate in maniera differente (figurato) rispetto al loro consueto utilizzo,  allo scopo di creare un effetto di un certo tipo nella frase, nella descrizione o nel sentimento in essa contenuti: l’effetto può essere di significato o anche solo sonoro.

Lo scrittore che ha sensibilità linguistica trova le proprie metafore, non  semplicemente perché gli hanno insegnato a evitare i cliché, ma perché si diverte a trovare un’immagine vivida e precisa alla quale nessuno ha mai pensato prima.
John Gardner

Quello che mi preme sottolineare è l’importanza, non di imparare a memoria definizioni e classificazione – se vuoi un spiegazione approfondita delle figure retoriche ti consiglio il manuale di Retorica di Bice Mortara Garavelli –  ma di capire il meccanismo narrativo che ci sta sotto.
Una volta compreso lo spostamento linguistico, bisogna allontanarsi dai cliché: ovvero dalle espressioni e dalle figure già utilizzate dagli altri scrittori, attingendo dal proprio vissuto, dalla propria sensibilità, dal proprio punto di vista originale sul mondo, altrimenti, oltre allo scrivere degli stereotipi, si finisce per produrre espressioni prive di vita, da zombie. Non solo, ma uno scrittore che scrive frasi fatte non avrà nessuna fiducia nel suo linguaggio, nella sua percezione della realtà.

Abraham Yehoshua, uno scrittore che ha molto fiducia nei suoi mezzi espressivi, predilige la metafora alla similitudine.

Quando nel romanzo “l’Amante“, paragona la nonnina in coma ad una pietra, lo fa senza usare termini di paragoni:

“Una pietra posata su un lenzuolo bianco. Una grossa pietra. Rivoltano la pietra, lavano la pietra, le danno da mangiare e la pietra piscia adagio. Rivoltano la pietra, puliscono la pietra, puliscono la pietra, le danno da bere e la pietra piscia di nuovo. Sparito il sole. Buio. Silenzio.”

Le figure retoriche nascono proprio dall’esigenza di comunicare ponti sensoriali e collegamenti mentali unici, personali, stravaganti.

Se sentite l’espressione napoletana: “È fernuta a’ Zezzenella” vuol dire che è finita la pacchia

Se pensiamo ai detti popolari e alle espressioni dialettali, queste nascono proprio dall’uso passionale, emotivo e pieno di connotazioni del linguaggio

Il linguaggio non deve rassicurare, deve stupire.

stupore

Se Pascoli scrive:

Anche un uomo tornava al suo nido.

Una volta capito il collegamento tra nido e casa, ecco che non devo ripetere il termine nido per essere poetico, ma devo trovare una parola che esprima il sentimento che suscita la mia dimora.

Se ci sto male potrebbe essere una gabbia, o un inferno…

Attenzione! Sei mai stato all’inferno?

Dubito. Ecco che anche inferno sarebbe un cliché, un’autoreferenza linguistica. Dove sei stato veramente male? In un ospedale, in una sala d’attesa di un dottore, dal dentista? Ecco, già meglio.

Ogni giorno, salita la solita rampa di scale, tornavo nella sala d’attesa dove mia madre agonizzava guardando la tv.

Insomma, per usare le figure retoriche dovete partire da quello che vi suggerisce la vostra pancia. Condividi il Tweet

 

Quali sono le figure retoriche

Le figure retoriche sono centinaia, spesso tra loro si differenziano poco e sono facilmente confondibili.
Vengono usate in letteratura, in prosa, in narrativa, insomma per scrivere un romanzo, un racconto, una novella.

Vengono adottate in poesia, ma le ritrovi anche nelle canzoni, nel copywriting e spesso le usi nei discorsi della vita di tutti i giorni senza magari accorgertene.

Se vuoi vivere di scrittura, a mio avviso, dovresti impadronirti delle figure retoriche.

La cosa fondamentale da considerare è che esiste sempre una relazione – contiguità, analogia, opposizione – tra il termine che ha senso proprio e quello con cui lo sostituite.

Provate, è divertente!

Se vostra madre ha la mania di misurarsi la febbre, la chiamerete “l’infermiera”.

Se vostro padre prende il righello per parcheggiare l’auto lo chiamerete “il geometra”.

Geometra

 

Le figure retoriche: suddivisione

I tropi si dividono tradizionalmente in:

  1. figure di suono (fonetiche): riguardano l’aspetto fonico-ritmico delle parole, agiscono sul suono e sul ritmo della frase (sono più utilizzate in poesia);
  2. figure di costruzione (sintattiche o dell’ordine delle parole): riguardano la disposizione, l’ordine delle parole o la loro ripetizione all’interno della frase.
  3. figure di significato (semantiche): incidono sul vero e proprio significato delle parole, evidenziandolo, ampliandolo e rendendolo spesso diverso da quello comunemente conosciuto. Comportano un trasferimento di significato da un’espressione a un’altra e accrescono con associazioni od opposizioni la carica poetica o suggestiva delle parole.

 

Figure Retoriche: perché sono importanti in narrativa?

Le figure retoriche sono una sorta di strumento con il quale:

  • si possono utilizzare le parole in modo diverso rispetto al loro consueto utilizzo;
  • lo scrittore può creare una lingua interessante e scrivere in modo espressivo;
  • il lettore è portato a cogliere i significati più nascosti delle singole espressioni.

Quando, il venerdì sera dopo una pesante settimana lavorativa, proponi al tuo collega: “Ci facciamo un bicchierino”, non intendi forgiare un contenitore di vetro, ma andare al bar.

Se poi, la mattina dopo dici a tua moglie che avete “bevuto fino a scoppiare” hai usato un’iperbole (non lo sapevi, ma ha funzionato lo stesso).

Ogni singola parola ha due tipi di significati:

  • significato denotativo: usato nella comunicazione ordinaria. Esso descrive ed informa;
  • significato connotativo: dà alla parola un valore in più (personale, emotivo) arricchendola.

Un esempio?

fegato

La parola fegato:

  • significato denotativo: organo secretore della bile;
  • significato connotativo: coraggio, audacia, forza fisica;

 

L’utilizzo del linguaggio nel suo significato connotativo è ciò che si definisce linguaggio figurato ed è proprio su quest’ultimo che si basano le figure retoriche.

Le figure retoriche semplicemente rendono più efficace, più espressivo un concetto, un'emozione e stupiscono, sorprendono indubbiamente il lettore. Condividi il Tweet

Non sono solo un abbellimento, un elemento decorativo, ma costruiscono delle connessioni nuove tra elementi diversi tra loro.

Figure retoriche: le più usate in prosa.

Le figure retoriche sono centinaia, credo sia inutile in questa sede riportarle tutte, poiché non siamo a scuola e sinceramente neanche a scuola le abbiamo mai studiate tutte.

Nel report più in basso cito le principali, le più usate soprattutto in prosa e in narrativa che sono quelle che interessano di più per la scrittura creativa.

FIGURE RETORICHE ELENCO

Tutte le figure retoriche (o quasi) con relativi esempi

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LE FIGURE RETORICHE FONETICHE

In sincerità questa tipologia di figure, riguardando il legame sonoro tra parole vicine, è la meno indicata per il testo in prosa.

Si potrebbe infatti percepire il legame sonoro tra parole vicine come una sorta di interruzione o di rallentamento del ritmo della frase e soprattutto della sua fluidità.

Allitterazione:
consiste nella ripetizione della stessa lettera o della stessa sillaba in parole vicine: l’effetto è sia fonetico che grafico.
La parola deriva dal latino adlitterare: “allineare le lettere”.

Chi non ha mai sentito ili famoso jingle dello spot della merendina Fiesta della Ferrero?

“Fiesta ti tenta tre volte tanto”

La T si ripete per ben 4 volte!

E quante volte ti capita di usare espressioni comefar fuoco e fiamme” o “in parole povere”?

Premesso che l’allitterazione, avendo a che fare con i suoni, è più usata in poesia e in musica, in casi particolari la si ritrova anche in prosa, in quanto, con la ripetizione dei suoni nella stessa frase o nelle frasi seguenti, aiuta a creare anche il senso fonetico della situazione da descrivere, in modo che il lettore possa quasi sentire il suono di ciò che si descrive:

“Pigiava potentemente con i piedi.”
Nota la ripetizione della lettera “p” per far sentire al lettore il rumore dei passi.

Onomatopea:

è la riproduzione di suoni naturali tramite il ricorso a termini (reali o inventati) che acusticamente suggeriscono i suoni stessi. L’onomatopea è utile, quindi, per esprimere a parole immagini, situazioni e suoni.

L’ onomatopea è una riproposizione fedele di un rumore, di un suono, di un oggetto, di un’azione o del verso stesso di un animale.

bau, miaoo, chicchirichì” sono onomatopee.

I suoni reali vengono quindi imitati il più fedelmente possibile tramite la combinazione di vocali e consonanti (per esempio: din don dan, toc toc, etciù) ma anche tramite l’utilizzo di verbi che riproducono la sensazione che esprimono (come “fischiare”, “picchiettare”, “sibilare”, “gorgogliare”).

Utilizzata in prosa, l’onomatopea dà al testo un’impressione immediata di movimento.

La ritrovi di frequente nei libri per bambini e nei fumetti; talvolta nella narrativa contemporanea le parole onomatopeiche (vedi, ad esempio, ululati, miagolii, ticchettii) sono preferite alle onomatopee vere e proprie.

Le parole onomatopeiche suggeriscono o ricordano un suono, un rumore o un verso; rendono più vivide le immagini.
Esempi: “tonfo, rimbombo, tintinnio, acciottolio, boato, sussurro, friggere, tartagliare.”

Stefano Benni  in Prendiluna  scrive:

“Sentì un crepitio, simile a quello degli stecchi che bruciano sul fuoco. Poi un tic tac, le ricordava qualcosa. Ecco. Il crepitare erano archi o zampette che si accordavano. Il ticchettio era il battere della bacchetta sullo spartito.

Il direttore di orchestra avvertiva i musicisti che era ora di esibirsi.”

LE FIGURE RETORICHE SINTATTICHE

Con le figure retoriche sintattiche il normale ordine sintattico della frase viene modificato e talvolta, grammaticalmente parlando, ne possono derivare delle scorrettezze grammaticali; tuttavia, essendo le figure retoriche sintattiche molto presenti nel linguaggio parlato, capita spesso di trovarle anche in romanzi, novelle, racconti, in special modo nei dialoghi.

Anafora:

consiste nella ripetizione di termini uguali all’inizio di frasi consecutive.

(Se la ripetizione di termini uguali avviene alla fine di frasi consecutive abbiamo invece l’epifora).

La canzone di Jovanotti “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang” è un ottimo esempio:

Altro che il luna park, altro che il cinema,
altro che internet, altro che l’opera,
altro che il Vaticano altro che Superman,
altro che chiacchiere….”

Come dunque si nota una parola (ma può avvenire anche con un’espressione intera) viene ripresa e ripetuta per sottolineare un’immagine, un concetto e l’effetto sarà tanto più forte quanto più numerose saranno le ripetizioni.

Anacoluto:

Combinazione di due espressioni linguistiche, collegate tra loro per il senso ma non armonizzate sintatticamente, così che la prima resta come sospesa.

Pur essendo molto diffuso nella nostra, come in altre lingue, l’anacoluto tuttavia nelle grammatiche è classificato generalmente come errore, e nella stessa narrativa moderna sinceramente è poco usato. Al limite lo si ritrova quando lo scrittore vuole imitare il parlato o interrompe appositamente il filo del discorso per dar spazio all’irruenza delle emozioni, soprattutto nei monologhi interiori dei personaggi.

Troverai l’anacoluto più che altro nel parlato, nei proverbi e nelle frasi fatte (es: “mangia che ti passa”; “ Giorgio, ne parlano un gran bene”; “io la frittura non la digerisco proprio”.)

Climax:

consiste nel disporre frasi, sostantivi e aggettivi (comunque più elementi del discorso) secondo un ordine basato sulla crescente intensità del loro significato (climax ascendente).

Il climax crea un effetto di progressione che potenzia l’espressività del discorso.

Esempio: “Il cane afferrò la pantofola, la morse, la tirò, la mangiò, la strappò.”

O ancora: “Ti penso, ti immagino, ti desidero, ti voglio.”

Con tale figura retorica viene quindi costruita una escalation di azioni che sale d’intensità fino al culmine finale, quando avviene la conclusione di una serie di atti.

Nota questa descrizione che Niccolò Ammanniti fa riguardo all’estate del 1978 in Io non ho paura:

“Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case.”

Vi è una escalation delle azioni compiute dal forte calore che culmina nell’uccisione delle bestie e nell’infuocare le case della gente.

Il climax è molto usato in narrativa, aiuta lo scrittore a velocizzare il ritmo del racconto,  catturando così maggiormente l’attenzione del lettore, la cui partecipazione emotiva sale o scende a seconda della sequenza delle parole.

Ricordiamo che esiste anche l’anticlimax o climax discendente con il quale si creerà, al contrario del climax, una progressiva attenuazione dell’intensità degli atti narrati.

S. Fitzgerald nel Grande Gatsby ti fornisce un magistrale esempio di climax e anticlimax insieme:

“Il mormorio fremette sull’estremo limite della coerenza, s’inabissò, montò con eccitazione, e quindi cessò del tutto.”

Zeugma:

è una figura retorica che prevede il collegamento di un verbo a due o più elementi o complementi diversi e disomogenei tra loro che richiederebbero, proprio per la loro disomogeneità, ognuno rispettivamente un verbo specifico.

Lo zeugma viene spesso utilizzato in narrativa per concentrare e semplificare quanto si sta dicendo, “forzando” un complemento a dipendere da un predicato diverso da quello che invece richiederebbe.

Es. “ti ho visto ballare e cantare.”

La frase corretta sarebbe: “ti ho visto ballare e sentito cantare.”

Se noti più attentamente è come se ci fosse un sottinteso.

Anche se la logica richiede più precisione e chiarezza nelle descrizioni, tuttavia il romanzo non è un saggio di matematica e spesso, per esigenze di scioltezza e di imitazione di espressioni del linguaggio comune, possiamo anche permetterci qualche imprecisione (senza ovviamente esagerare).

FIGURE RETORICHE DI SIGNIFICATO

Le figure retoriche di significato, riguardando appunto il significato delle parole, sono le più interessanti sia per le creazioni in poesia che per quelle in prosa, dal momento che consentono di giocare con il valore più profondo delle parole stesse, arricchendo la comunicazione di sfumature e intenti pressoché infiniti.

Sono molto usate nel linguaggio parlato e, proprio per la loro grande forza espressiva, sono tutte molto usate in prosa e in narrativa.

Antonomasia:

figura retorica che consiste nell’utilizzare un nome comune caratterizzante al posto di un nome proprio, o viceversa un nome proprio caratterizzante al posto di un nome comune.

Hai mai sentito l’espressione “Sei un Adone” per dire “sei bello” o ancora “è un Don Giovanni” ?

Forse, venendo ai giorni nostri, ti sarà capitato di dire: “Parli tu, manco fossi Brad Pitt.”

Questi sono casi in cui la notorietà dei personaggi citati (Adone, Brad Pitt e Don Giovanni) ha portato il loro nome a connotare intere categorie di persone e concetti.

In pratica si attribuisce al nome proprio di una determinata persona (Adone, Don Giovanni e Brad Pitt) un significato adattabile ad altri soggetti, a partire dalle qualità specifiche di quella determinata persona.

Fa talmente freddo qui che sembra di stare in Siberia”, la Siberia, come è noto a tutti, è una zona freddissima della Russia, tanto che Siberia nel linguaggio comune ormai indica un luogo gelido.

Ci sono anche esempi ancora più popolari:

Er pupone” per antonomasia è Totti o “L’avvocato” per antonomasia era Gianni Agnelli.

Ovviamente sono antonomasie legate sicuramente al momento e all’ambiente.

Ai tempi di mio nonno per indicare un bell’uomo si diceva che fosse Rodolfo Valentino o Alain Delon (noti sex-symbol del passato).  Ma che ne sanno i millenial, direbbe qualcuno oggi.

Eufemismo:

figura retorica che consiste nel sostituire l’espressione che dovremmo usare in realtà con un’altra di significato più attenuato perché la riteniamo troppo offensiva o cruda.

Per esempio, utilizzerò le parole “spegnersi” o “venire a mancare” o “andarsene” per dire “morire”; potrei anche dire “venire alla luce” per intendere “nascere”.

O ancora l’espressione “parti intime” per indicare gli attributi maschili o femminili (ah, ho usato ancora un eufemismo J.

Come vedi, l’eufemismo smorza l’asprezza o la crudezza di un’espressione usando anche dei sinonimi.

Talvolta la parola non viene sostituita ma alterata magari nelle esclamazioni o nelle imprecazioni: “Cristoforo Colombo!” al posto di Cristo:)

L’eufemismo è molto utilizzato nel linguaggio comune, allevia il tono del discorso e, con un giro di parole, ti consente di evitare espressioni volgari o dure che potrebbero urtare la sensibilità di chi ti ascolta; l’eufemismo è usato anche in senso ironico riguardo a circostanze o esperienze poco piacevoli o imbarazzanti.

Per esempio, se ti viene chiesto come hai trovato un determinato film al cinema, e tu sai di esserti addormentato durante la proiezione, potresti rispondere: “il film non si addiceva molto ai miei gusti personali, per usare un eufemismo”.

L’espressione “per usare un eufemismo” è usata sia nel testo scritto che nel linguaggio parlato in quanto serve a evidenziare il fatto che si sta usando un’espressione un po’ più gentile di quella che in realtà si vorrebbe usare (in poche parole, si danno istruzioni sul come interpretare la frase).

Iperbole:

Il termine iperbole deriva dal greco e significa “eccesso”; si usa un’iperbole ogni qual volta si esagera per eccesso o per difetto nella descrizione della realtà allo scopo di dare maggior credibilità al messaggio che si sta dando.

È una vita che non ti vedo in giro!” o “il prezzo della benzina è salito alle stelle”.

Il concetto viene esagerato fino all’inverosimile.

L’iperbole presuppone la buona fede di chi la usa in quanto viene alterata la realtà, non per ingannare il proprio interlocutore ma per rafforzare il senso di quanto si sta dicendo.

Avremo ripetuto la lezione almeno un milione di volte!”

(No, tranquillo, non dico a te).

L’iperbole è usata molto spesso nel linguaggio comune: un uso ricorrente lo si riscontra anche nel linguaggio pubblicitario e giornalistico.

Anche nella narrativa l’iperbole viene usata, soprattutto nei dialoghi,  sia per aumentare l’effetto negativo del concetto sia per fare apparire lo stesso positivo oltre il dovuto.

“Gianni corse in auto come un missile per arrivare in tempo all’appuntamento con Carla.”

È palese l’esagerazione per mostrare la fretta di Gianni.

Ironia:

L’ironia è quella figura retorica che consiste nell’affermare il contrario di ciò che in realtà si pensa e si vuol dire, facendo però intravedere tra le righe le proprie reali intenzioni comunicative.

L’ambiguità può riguardare una singola parola, un’espressione o una parte di testo anche molto più estesa.

Qualche esempio?

Bella figura”, “Ma che bravo!” (a chi magari ha appena detto qualcosa che non doveva dire o risposto male a una interrogazione).

Chiara non soffre assolutamente il freddo: solo due maglioni, calzamaglia di lana e scarponcini” (nonostante la temperatura sia di gran lunga sopra lo zero).Pur non dicendolo esplicitamente, è chiaro l’intento di far capire che Chiara è freddolosa in modo esagerato.L’ironia è molto usata in letteratura, sia nella poesia che nella narrativa con l’intento di stimolare il senso dell’umorismo nel lettore.

L’ironia nella maggior parte dei casi è accompagnata da segni di interpunzione di valore emotivo, come i …. (puntini di sospensione) o il !? (punto esclamativo più il punto interrogativo).

L’ironia, essendo una sorta di “atteggiamento nei confronti della realtà”, deve essere sempre filtrata dall’autore in modo tale che si adegui ai valori socio-culturali del periodo storico della realtà a cui egli si riferisce.

Litote:

affermazione di un concetto attraverso la negazione del suo contrario (non bello= brutto; non intelligente= ignorante; non promosso= bocciato).

Può avere lo scopo di attenuazione o enfasi ma anche di eufemismo o ironia.

È una figura simile all’eufemismo, ma si distingue da esso proprio per la presenza di un elemento di negazione (non).

Come l’eufemismo anche la litote attenua spesso “la carica” di ciò che si vuole dire, perché magari ritenuta troppo cruda od offensiva.

La litote è usata molto di frequente nel linguaggio quotidiano per soddisfare esigenze di delicatezza, per non esporsi con dichiarazioni troppo nette.

Dire per esempio “una zona non sicura” equivale a dire una “zona pericolosa”.

La litote smorza la dichiarazione di pericolosità nei confronti della zona.

Dire “Carlo non è un adone” equivale a dire che Carlo è bruttarello.  La litote con ironia risponde ad esigenze di delicatezza nei confronti di Carlo, in quanto il giudizio sulla sua bellezza è ammorbidito.

La litote è molto usata in prosa e acquisisce un posto particolare nello stile dello scrittore.

Niccolò Ammanniti in Io non ho paura così descrive uno degli amici del protagonista:

“Non era un cima, ma era forte, grosso e coraggioso”

L’espressione “non era una cima” attenua il giudizio nei confronti del teschio (il ragazzino in questione).

Metafora:

è una similitudine senza elementi che introducono il paragone (come), in cui non è esplicitato il tratto significativo che accomuna i due termini.

Se “Marco è veloce come il fulmine” è una similitudine, “Marco è un fulmine” è una metafora.

Come si nota, nella metafora vengono accostati due termini in relazione di somiglianza tra loro omettendo i passaggi logici del paragone. Per questo motivo, penso che sia una figura più potente della similitudine.

Ricordati che la metafora non è totalmente arbitraria: deve esistere sempre un rapporto di somiglianza tra il termine di partenza e il termine “metaforico”.

Il significato di una parola viene trasferito dal senso proprio (volpe) al senso figurato (furbizia): sei una volpe =sei furbo/a.

È fuori di dubbio l’utilità della metafora per lo scrittore per creare immagini di forte carica espressiva, per creare immagini vivide in una scena; il potere evocativo e comunicativo della metafora stessa sarà tanto più forte quanto più i termini di cui si comporrà saranno lontani nel campo semantico.

Lo scrittore può utilizzare esplicitamente la metafora in una singola frase, ma altrettanto per una scena o  anche per enfatizzare tratti del carattere di uno dei suoi personaggi.

Stefano Benni in “Prendiluna” ci parla di una corriera che cigolava (parola onomatopeica) e ballava la samba sulle buche.

Molto evocativa l’immagine della corriera che balla, alla pari di una vistosa e formosa ballerina brasiliana di samba con i suoi ancheggiamenti provocanti.

Paolo Giordano nel suo “La solitudine dei numeri primi” scrive che  “sentirsi speciali è una delle gabbie peggiori che uno possa costruirsi”.

L’immagine della gabbia, delle sbarre di ferro, rende maggiormente l’idea di qualcosa da cui si rimane inevitabilmente imprigionati e da cui non si può assolutamente scappare.

Niccolò Ammanniti in “Io non ho paura” scrive:

la mia bicicletta era un ferro vecchio”…. o ancora “la storia dei coccodrilli continuava a ronzarmi in testa…”

Il ferro vecchio richiama alla mente qualcosa da buttare nel vero senso della parola e il verbo ronzare in testa riferito alla “storia sui coccodrilli” richiama alla mente l’idea delle mosche fastidiose che quando iniziano a infastidirti non la smettono più.

Giuseppe Pontiggia in “Nati due volte” riguardo alla madre usa la seguente espressione metaforica: “l’offesa sembrava averla trafitta”.

Il verbo trafiggere richiama l’idea della spada che, infilzata nella carne, provoca un enorme dolore, se non la morte; la metafora utilizzata rende bene l’idea di quanto quella certa offesa abbia colto nel segno.

Potrei andare avanti all’infinito, scovando miriadi di metafore in ogni romanzo che mi capita sotto mano: la metafora non per nulla è considerata la “regina delle figure retoriche” (ho utilizzato un’altra metafora).

Metonimia:

è una figura in cui l’associazione di due termini avviene secondo precise relazioni qualitative.

Le relazioni più diffuse sono le seguenti:

  • l’effetto per la causa e viceversa: in pratica si indica la causa per intendere l’effetto. Si dice l’inverno per indicare il freddo. Posso poi indicare l’effetto per intendere la causa: posso dire il sudore per intendere il lavoro;
  • l’astratto per il concreto e viceversa;
  • il contenente per il contenuto;
  • l’opera per l’autore o il produttore per il prodotto e viceversa: ovvero si indica l’autore per intendere l’opera: posso dire che ho comprato un Picasso per intendere un quadro di Picasso;
  • lo strumento per la persona che lo usa. Ad es. “Il primo violino è molto bravo…” È ovvio che si intende il musicista che suona il violino.
  • la materia per l’oggetto: posso dire il legno per intendere la nave; porto a lucidare gli argenti intendendo gli oggetti d’argento che possiedo.
  • il luogo per gli abitanti di quel luogo: posso dire Roma per intendere i Romani.

In pratica la metonimia è un tipo di metafora con cui si sostituisce un termine con un altro che abbia con il primo un rapporto di contiguità logica, qualitativa o spaziale.

A differenza della metafora, nella metonimia la parola sostituente appartiene allo stesso campo semantico della sostituita, o comunque tra le due c’è un rapporto di causa effetto o di reciproca dipendenza.

Riporto qualche esempio:

Mi piace ascoltare Mozart quando studio”(le opere di Mozart);

La gioventù del luogo si raduna per la maggior parte in quel pub” (i giovani); “L’intera città è in lutto” (i cittadini);

Mi faccio una coppa di gelato e non ci penso più”(il gelato dentro alla coppa); “Ti sei divorato un barattolo intero di Nutella da solo?” (la Nutella nel barattolo);

“Hanno ritrovato il Van Gogh rubato un mese fa”(un quadro di Van gogh);

Ho portato Leopardi all’esame” (le opere di Leopardi);

stenderò la lavatrice” (il bucato della lavatrice).

Ossimoro:

è una figura retorica che consiste nell’accostare due parole i cui significati si contraddicono; spesso una è un sostantivo e l’altra un aggettivo.

Capita sovente che i due termini accostati nell’ossimoro siano incompatibili e l’effetto prodotto è paradossale, un originale contrasto.

Immagina il sorprendente effetto stilistico di espressioni come “Caos Calmo”; “Ghiaccio bollente”; “Lucida follia”; “Buio accecante” o “Silenzio assordante”.

Il risultato?

Un effetto che meraviglia, che stupisce o che, come diceva la mia prof. di Italiano al liceo, porta il lettore “allo straniamento o aprosdòketon”.

Stefano Benni in Prendiluna scrive:

“Da un momento all’altro si aspettava che un’ombra spuntasse dal buio, portando in bocca un piccolo dono crudele, il cadavere di un talpa o un topo straziato. Ma niente si muoveva.”

Francis S. Fitzgerald nel Grande Gatsby utilizza l’espressione tesa gaiezza per sottolineare il tono con cui viene fatta un’esclamazione da uno dei personaggi (Daisy in questo caso).

Similitudine:

La similitudine mette in relazione due immagini, collegate fra loro grammaticalmente da avverbi di paragone o locuzioni avverbiali: così…come; tale…quale; a somiglianza di…

A differenza del paragone, i due elementi della similitudine non possono essere intercambiabili, il confronto cioè non vale anche in senso inverso.

Per esempio: “Carlo è lento come una tartaruga”, è una similitudine.

L’immagine della tartaruga, animale noto per la sua proverbiale lentezza, rende ancor meglio l’idea della lentezza di Carlo..

Le persone, gli animali, i sentimenti, le immagini vengono paragonate per associazione di idee.

“Sono caduto come un sacco di patate” ovvero sono caduto in maniera goffa, pesante: il sacco di patate è noto per la sua poca grazia.

Dato il suo indiscusso potere comunicativo ed evocativo la similitudine è molto utilizzata in prosa: arricchisce le descrizioni di situazioni, luoghi, personaggi, sentimenti, emozioni.

Niccolò Ammanniti in Io non ho paura così descrive il paesaggio:

“Le colline, basse, si susseguivano come onde di un oceano dorato. Fino in fondo all’orizzonte, grano, cielo, grilli, sole e caldo.”

Poi ancora riguardo al vento si esprime così: “frusciava nel grano, facendo un suono che assomigliava ad un respiro…”

Il lettore attraverso le similitudini e le immagini proposte è molto più portato a viaggiare con la mente, a pensare per immagini.

Giuseppe Pontiggia in Nati due volte a proposito del ginecologo della moglie in ospedale dice:

[…]lui procede ondeggiando come un marinaio ubriaco […]” e ancora:

“Eccolo avanzare in corridoio. Viene nella mia direzione con i suoi passettini frettolosi, come un pinguino che dondola sui fianchi…”

Oltre alla scarsa simpatia dell’autore per il ginecologo, le immagini, sia del marinaio ubriaco che del pinguino che dondola sui fianchi, comunicano ancora di più, dicono qualcosa in più, rendono meglio l’idea al lettore dello strano (ridicolo) modo di camminare del dottore.

F.S. Fitzgerald nel Grande Gatsby scrive:

“Comprai una dozzina di volumi su tecnica bancaria, credito e investimenti obbligazionari; e se ne stavano in piedi sullo scaffale in rosso e oro come denaro nuovo di zecca, promettendo di svelarmi i luccicanti segreti che soltanto Mida e Morgan e Mecenate conoscevano.”

Metafore, ossimoro (luccicante segreto) e similitudine, che magnifica immagine eloquente ed evocativa per il lettore che ne esce fuori!

Non c’è pagina di libro che non contenga similitudini: come può un bravo scrittore farsi scappare uno strumento così potente?

Sineddoche:

Questa figura retorica ha notevoli affinità con la metonimia, ma il rapporto tra i due termini in questo caso si basa sulla quantità.

In pratica la sineddoche consiste nella sostituzione di un termine con un altro termine che abbia con il primo una relazione di tipo quantitativo (di numero o di estensione).

I casi più diffusi sono i seguenti:

  • il genere per la specie (e viceversa). Un esempio? “il felino” per indicare il gatto; “l’anfibio” per dire la rana; “i mortali” per indicare gli uomini.
  • il singolare per il plurale: “Il comunista di solito parla così.” Con la parola comunista si intendono tutti coloro che sono comunisti; “l’italiano medio guarda certe trasmissioni.” Con l’italiano medio si intendono tutti gli italiani di un certo livello.
  • la parte per il tutto. Esempio: “È rimasto senza lavoro e ha 5 bocche da sfamare” (con la parola bocche intendo le persone); “fuga di cervelli dall’Italia”(con la parola cervelli si intendono persone);
  • un numero determinato per l’indeterminato. Esempio: “durerà per mille anni”. L’espressione mille anni indica un tempo lunghissimo.

Giuseppe Pontiggia in Nati due volte scrive: “Una piccola folla, occhi di curiosità sgomenta, ha fatto il vuoto intorno a noi e si ritrae per farci passare.”

Sono presenti sineddoche e metafora: eloquente l’immagine degli occhi.

Il lettore si figura degli occhi enormi sgranati, delle iridi di un bianco vivido che curiose fissano i protagonisti.

Sinestesia:

è la figura retorica che consiste nell’accostamento di sensazioni diverse avvertite simultaneamente.

In pratica con la sinestesia vengono associate in un’unica espressione parole che si riferiscono a sfere sensoriali diverse.

 

Andrea De Carlo scrive:

“Lei ha fatto scorrere le dita sulla cordiera. Il suono che ne è uscito era liquido, brillante e dolce e pieno di riflessi come acqua di musica”

Penso che la sinestesia sia una figura retorica molto potente ed efficace soprattutto nelle descrizioni, in quanto coinvolge tutti i sensi (molto spesso tendiamo a usare solo la vista).

Scerbanenco ne “I ragazzi del massacro” parla dell’ottusa densa vaporosità della nebbia.

La mia carrellata sulle figure retoriche più importanti e più usate si conclude qui. Considera che non sono tutte, ma quello che veramente importa per uno scrittore, per scrivere in modo persuasivo, è il partire dalle proprie percezioni e stabilire collegamenti originali e suscitare emozioni.

Qui di seguito puoi scaricare l’e-book con l’elenco delle figure retoriche in narrativa che ritengo più importanti.

Ti lascio giocare ora con il cruciverba delle figure retoriche: vediamo se riaffiora qualche ricordo scolastico.

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