In un romanzo, di qualsiasi genere esso sia, i personaggi e le loro relazioni si trovano sempre al centro della narrazione. Certo, parlo di romanzi tridimensionali, e non quelli dove lo scrittore si limita ad applicare in modo sterile archetipi e stereotipi del genere letterario. Anche se ci troviamo in un mondo fantastico di maghetti, hobbit ed elfi, o in uno scenario distopico dominato da robot e alieni, in cui fondamentale è la creazione di un accurato World-building, l’elemento che deve essere credibile è la relazione tra i personaggi.

I personaggi si devono comportare in modo coerente e le loro reazioni devono essere funzionali e logiche. Ne “La fattoria degli animali” di Orwell i meccanismi relazionali che troviamo sono assolutamente umani. Anzi, forse è proprio il distacco dalla mera realtà e il trasferimento delle relazioni umane in un altro contesto a permettere allo scrittore di essere più lucido e distaccato.

 

Se nella vita hai subito un sopruso dal capo, raccontarlo così come è avvenuto potrebbe risultare stucchevole, poco interessante, non originale, perché tu sei troppo coinvolto a livello emotivo. Ma se inventi un mondo differente e trasferisci quella stessa dinamica in quello che Nabokov chiama mondo immaginario, sarai costretto a essere più distaccato, più lucido e a cercare altri dettagli e sfumature. E non devi necessariamente scrivere un’allegoria e trasformare il tuo capo in un maiale.

Facciamo un esempio pratico:

ipotizziamo che Marco, nella vita reale, soffra di disturbo narcisistico. È sempre a caccia di donne per soddisfare il suo bisogno di approvazione (a sua volta dovuto a una mancanza di riconoscimento da parte dei genitori). Questa costante ricerca di donne gli sfugge di mano, fino a diventare una vera e propria dipendenza, che gli guasta la vita e i rapporti sociali.

Se Marco volesse scrivere un memoir o un’autobiografia, potrebbe correre diversi rischi:

essere troppo autoreferenziale, parlarsi addosso, vedere le cose solo dal suo punto di vista, limitarsi a resocontare i fatti. La sua storia somiglierebbe più a un reportage che non a un testo narrativo.

Marco, invece, potrebbe decidere di scrivere un giallo, in cui uno dei protagonisti, il detective, soffre di un disturbo equivalente. Il detective ha sofferto per la mancanza di riconoscimento da parte dei suoi genitori. Per questo motivo si arruola in Polizia e comincia a far carriera. Quello che cerca costantemente è l’approvazione nel suo ruolo di investigatore, ma la cosa gli sfugge di mano. Ossessionato dalla carriera e dal diventare l’investigatore infallibile, rovina il rapporto con la moglie e con la figlia.

Oppure, Marco potrebbe scrivere la storia di un avvocato che, ammaliato dal denaro e dal successo, si trasferisce a New York accettando l’incarico da parte di un importante uomo di affari. L’avvocato, sprofondato in un vortice di fama, successo e denaro, finisce per trascurare la bellissima moglie che cade vittima di depressione e si suicida. (L’avete riconosciuto? Si tratta del plot de “L’avvocato del diavolo”).

Oppure, Marco potrebbe romanzare la storia di Pablo Escobar, che arriva a bruciare i soldi tanto ferocemente inseguiti perdendo la moglie. Il mezzo diventa il fine ultimo.

Con tutte le differenze del caso, il meccanismo sottostante è il medesimo. Una persona che, a causa di qualche scompenso e carenza affettiva, cerca di colmare il vuoto andando alla ricerca disperata di approvazione. Vanità, orgoglio, riconoscimento: tutti meccanismi che portano il personaggio alla rovina.

Marco dunque ha svariate possibilità per esprimere il suo malessere, e forse, la meno interessante risulterebbe proprio quella dell’autobiografia.

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